venerdì 29 marzo 2013

paura freddo dolore

(di Master, di Foscolo e sulla resurrezione pasquale)
Preferivo morire quattro mesi fa. Dovrò aspettare il prossimo inverno, ma nel frattempo ho paura come un tossico aggressivo che incolpa la madre. Avrei bisogno di aria sporca di nicotina, ché quest'aria pulita mi brucia dentro e io non sopporto il dolore. È uno dei motivi perché mi drogo. Il freddo, il dolore, la paura. Ma che razza di mondo è? poi dici che uno si ammazza: d'un tratto, tutto insieme senza perdere tempo, uno si parcheggia ad un angolo, come direbbe Mattia, oppure un po' al giorno, come faccio io. Ché per non sentire freddo mi muovo e per non avere paura mi riempo la giornata di impegni del cazzo. Il dolore lo evito stando attento, attento a tutto, attento sempre: è faticoso, ma si tira avanti. Sempre meglio di quel freddo boia, di quella paura da stupidi e di quel dolore di merda. Dovevo morire prima, cazzo! invece devo stare qua a tenere botta, a drogarmi la vita, a mangiare come un robot, a controllare se "biologicamente me la cavo con l'idea che ho di me stesso" e a convincermi che poi sono fortunato che sto bene. Sto bene un corno! è una vita di merda la mia e di quelli che mi stanno a un metro. Ma aspetterò il mio turno, prendo il numeretto e con la pretesa di non disturbare il sole agli altri, proverò ad andare in inverno.
Sperando che il prossimo, come questo, io riesca a dirmi che il freddo è tutto fuori e che bisognerà aspettare l'estate per sapere veramente se il freddo è anche dentro.
Intanto pure oggi sono scoperto: mi manchi proprio in quel punto che fa male dal freddo come una camicia che ti scopre un pezzo e non te ne accorgi; non so dov'è ma so che non ci sei, lasciandomi impaurito e solo. Non credevo ci fosse un modo: hai imbroccato l'unico che avevi per farti odiare.
Quell'incidente di quattro mesi era una scusa, la causa in sé era una scusa, ché non era la strada ad essere ghiacciata, non era la nebbia no, non erano le ruote ad essere fredde. No: il freddo era dentro di quelli che ti fanno tremare le ossa, di quelle sere in cui non è caldo nemmeno il motore e figuriamoci il cuore, figuriamoci se basta un maglione. Lo so perché il freddo io l'ho sentito anche a settembre, l'ho sentito soprattutto a giugno, lo sento ogni giorno. Freddo, dolore e paura: insieme come le Erinni che ti gridano in testa, che invocando vendetta ti scoppiano il cervello e non riesci ad essere freddo, quanto piuttosto a sentire freddo, ché tu non hai nessuno con cui vendicarti e nessun modo per ottenere riscatto, seppur minimo della tua coscienza che fortissimamente voleva, ma che è stata annichilita dal vento gelido della grande consolatrice contro cui non sei stato in grado di porre una barriera cinica; perché il cinismo è un'arma di difesa, ma quelli come me la usano solo per gioco, per consolare gli altri, per dire l'indicibile e farci i conti dopo, mica per affrontare la realtà. Gente come me è abituata a soffrire la realtà e a viverla e succhiarle il midollo a costo di stare male, coerenti fino alla fine col sentire, appagandosi solo col sentire, ma non quello che fai con l'orecchio teso, piuttosto col cuore teso, in inglese userebbero il verbo to feel e si capirebbe subito, in italiano potrei dirvi con-sentire, compatire, sentire e patire insieme, sentire un sentimento e patire un patimento, un'emozione. Poi dici che il greco e il latino non servono a niente, ma solo sul lunghissimo periodo ti rendi conto che sono loro a dare un senso alle parole quotidiane e a darti la forza di esprimerti, che le parole più evocative non stavano su un link di un aforisma su facebook quanto piuttosto in un distico elegiaco, come su un epitaffio, ma poi è Thousand memories, and not a single regret quello che in quel momento senti di più, anche se non certo per la versione appena citata. Vivere di ricordi collettivi, che la cultura stratifica ma che certamente è la letteratura a far vivere in senso sempre attuale, è uno dei modi che hai per non sentirti solo, ché da solo il freddo ti ammazza e basta senza possibilità di scampo. Per questo era importante vivere tutto insieme sempre, anche il freddo degli altri, anche quando è stato quel freddo solitario e sterilizzato, ma mai sterile al cuore. Il ricordo collettivo dell'ultima cena, quanto della morte ma certamente e soprattutto quello della resurrezione. Dopo quasi duemila anni ancora risorge tutti gli anni, sconfigge la morte tutte le volte. Ma io so che lo fa solo perché una liturgia specifica ha inchiodato tutto nell'eterno e quindi il tempo è come se non passasse. Duemila anni come fosse ieri. Io nel mio piccolo istituirò i miei riti di natale e di pasqua, perché così rimarrà vivo per sempre, foss'anche il ricordo, perché gli dèi esistono fin tanto che qualcuno crede in loro e quindi io eleggo i miei ricordi a miei dèi affinché continuino ad esistere. Ricordare come scopo, fine a sé stesso, come fanno gli stiliti sulla colonna. E ti pare che quelli là su non sentono il freddo che tira? ma ti pare che non hanno dolori anche loro? io non ci credo che non hanno paura di cadere anche loro come me.
Scrivere, fare opere per far rimanere in vita sempre perché la poesia, la musica e gli scritti abbiano funzione eternatrice, perché tatuino nel cervello e tramandino alle persone vicine, alle persone che verranno dopo di noi, che è giusto urlare, sentire, ricordare, per non lasciarle sole e impaurite dal freddo, caro Jacopo: E se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele.
E se star bene significa dimenticare io non lo accetto, io voglio stare male e vincere, finché anche ricordare sia una cosa bella che fa star meglio, finché non sia pasqua. Ci volessero duemila anni.



Nessun commento:

Posta un commento

CHIEDITI SEMPRE COSA E' BENESSERE