Compagni in piedi, ci ha lasciato un partigiano.
Un eroe, un uomo,
un combattente, un guerriero. Un amico. Siamo stati testimoni del coraggio di
un gigante.
È stata una persona
che prende parte, pareggia, che ha vissuto una vita degna di questo nome:
vivere significa essere partigiani e lui ha sempre preso le sue decisioni su
quale parte stare. Un tifoso, un amico, un compagno. Una persona che non aveva paura di iscriversi.
Che ci ha sempre tenuto a fare politica e quando più nessun partito lo ha
rappresentato degnamente, si è iscritto a radio libera tutti, continuando a
fare politica con la cultura anziché con le istituzioni. Senza mai crollare è
andato avanti sempre, tra le difficoltà e gli intoppi, coi sui tempi, sempre
ordinato e pronto. Se ne va però soprattutto un supereroe cresciuto coi
supereroi di quei fumetti che adorava: se ne va un amico. Il migliore amico di
molti, il miglior amico di sempre.
Conosciuto tra i
banchi di scuola, il destino mi ha regalato una bocciatura in primo liceo che
metteva a paro, grazie al suo genio di aver saltato la seconda elementare, due
destini altrimenti lontani.
In quei cinque anni ho imparato a vivere, abbiamo
imparato come una famiglia, tutto ciò che dovevamo: cosa che rende ancora più
ingiusto, se possibile, questa prematura dipartita che ci lascia da soli a
vivere quella vita a cui insieme abbiamo trovato un senso, che insieme abbiamo
provato come si fa. Ricordavamo spesso, proprio come gli innamorati fanno col primo
appuntamento, quella ricerca sul dio mercurio dopo qualche mese dall'inizio
della scuola: noi tre, come poi sarà fino alla fine. Con Fra che prende a calci
il distributore di caffè, inveendo "almeno un po' di zucchero!". Amore a prima vista. C'eravamo reciprocamente ad ogni prima esperienza e ad ogni prima cazzata: di
solito erano loro due a correre quando io stavo male e mai avrei pensato che la
corsa più brutta toccasse a noi farla per lui.
Ci hanno
ringraziato, si sono complimentati con noi, ma nessuno può capire quanto in
cuor mio sento di aver fatto meno di quello che avrei dovuto: ogni volta che
l'ho chiamato perché ero agitato, ci salutavamo con un abbraccio e un sorriso,
perché poi stavo bene. Non sono riuscito a fare altrettanto forse in questi mesi. Ho forse strappato
qualche sorriso, ho sorriso molto. Ho mangiato e comprato cose per me,
addirittura, per ridere un po', perché sapeva di essere l'unico a riuscire a farmi abbuffare o a darmi la sicurezza necessaria per un acquisto modaiolo. Ho pianto, ho pregato, in silenzio, ho abbracciato, ho condiviso,
ho assorbito. C'ho messo tutto l'Amore possibile. Come se potesse servire. A mala pena sono riuscito a restituire una piccola parte di quanto m'ha regalato. C'ha regalato.
Abbiamo passato
un ottimo pomeriggio lunedì 29 maggio, poi non l'ho più visto...l'ultimo mese ci siamo visti meno, era riservato più
del solito, più nervoso, più insofferente e più sofferente, meno incline alle
troppe persone. Per rispetto, sono stato più discreto ancora. Ho pensato che
stesse maturando un distacco in maniera più graduale, che ci preservasse dalle
sue sofferenze, perché mi sapeva troppo debole, troppo empatico, perché non mi
ammalassi anche io come mio solito, stupido come sono.
Il suo pensiero
spesso è stato quello di farci soffrire meno possibile, di "disturbare poco": intelligente e
razionale, sapeva benissimo essere una battaglia in cui era lui stesso l'unico
soldato, l'unico player, l'unico a poter vincere o perdere.
Anche stavolta
aveva preso parte e non si era lasciato vivere o in questo caso uccidere: aveva
deciso di lottare, spesso convinto di vincere; per quanto ovviamente non
possono non esistere momenti di sconforto. Io ho vissuto tutta l'illusione, ho
abbracciato da subito l'idea che non c'era altra soluzione che la vittoria, che
certe cose non possono non finire che bene: che a vent'anni è tutto ancora
intero. Che torneremo a ridere. Ma a vent'anni si è anche stupidi davvero come me: che ad oggi sono
otto giorni che non riesce a non piangere, che non si capacita, che non crede,
che non respira. Da quel sabato affannato e amaro, anzi.
Ho fatto con lui metà della
sua vita: dai 13 ai 26 anni e mi dispiace non fare altro, non goderci insieme
quel pezzo di vita in cui arriva la 'ciccia'.
Quel pezzo di
vita in cui si stavano ricucendo rapporti, in cui
sto aprendo un locale che ha visto una sola volta, in cui qualche progetto mutuato dalle esperienze fatte insieme in adolescenza, prende forma, si concretizza. In cui i sogni si possono realizzare, in cui si
diventa grandi davvero. A noi quel pezzo di futuro ce l'hanno strappato dal cuore,
estirpato a forza contro la nostra volontà. A noi tutti. Ho un obbligo morale e
un impegno preso, di vivere di più: dovrò vivere più di una vita sola, almeno una e mezza, dovrò
avere più coraggio, dovrò cogliere (dovremo cogliere!) frutti anche un po' per lui; solo una
consolazione mi alberga in petto ed è quella che mi manda avanti: ho avuto la
enorme fortuna quantomeno di incontrarlo, di poterlo fare addirittura nel
profondo più profondo dei sentimenti. Da amico. Da fratello.
"Finì con i campi alle ortiche, finì con un flauto spezzato...un ridere rauco, ricordi tanti.
E NEMMENO UN RIMPIANTO."
E NEMMENO UN RIMPIANTO."
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